VIII Congresso dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi AMP
L'ORDINE SIMBOLICO NEL XXI° SECOLO
NON E' PIU' QUEL CHE ERA. QUALI CONSEGUENZE PER LA CURA?
Associazione Mondiale di Psicoanalisi

Dal 23 al 27 Aprile 2012
Hotel Hilton

Macacha Güemes 351, Puerto Madero
Ciudad de Buenos Aires, Argentina
INIZIO COMITATO D'ORGANIZZAZIONE CONTATTO
ATTIVITÀ PREPARATORIE

Prima serata preparatoria verso l'VIII Congresso dell'AMP

"L'ordine simbolico nel XXI secolo. Non è più quel che era. Quali conseguenze nella direzione della cura?"
Trascrizione della Conferenza tenuta nell'EOL il martedì 19 aprile 2011, nella prima serata delle attività preparatorie verso il prossimo Congresso dell'AMP di Aprile 2012.

Senza nostalgia
per Oscar Ventura

Ebbene, per questo intervento da dove cominciare? Quale ordine scegliere? Prima voglio dire due parole sul manifesto del congresso. Quando l’ho visto per la prima volta devo confessare che ho impiegato un certo tempo per orientarmi rispetto all'immagine, anche se ora, non affermo di essere più orientato. Il proverbio dice "un’immagine vale più di mille parole". Un’immagine solitamente non ha bisogno di parole, può coagularle, fissarle. Le immagini parlano in modo efficace, senza dover necessariamente dirne qualcosa. Le immagini parlano da sole. D’altra parte, come si sa, le immagini possono scatenare cascate di parole. Flory, per esempio, ha spinto tutti i nostri colleghi del mondo a dare un’opinione, a dire qualcosa su ciò che l’immagine del manifesto del Congresso suggerisce loro; non sono riuscito ancora a leggere ciò che questa richiesta ha prodotto. Non so quali risposte ha avuto. Nel mio caso, il manifesto mi ha lasciato senza troppe parole. Tuttavia brevemente posso recuperarne alcune. Si potrebbe dire, per esempio, che l’immagine evoca un certo disordine, un attraversamento della lettera sotto l’implacabile avanzata di una tagliente daga che sembra un’arma futurista, la quale fa sì che un fascio di luce, forse accecante, spezzi e faccia vacillare quelle stesse lettere su cui l’ordine Simbolico pretende scriversi. Potremmo dire, inoltre, che non è semplice orientarsi nel mondo sovrascritto di questo manifesto attraversato da uno sciame d’intrecci che mi riportano alla mente le costruzioni dell’architettura post-moderna. Ha qualcosa dell’edificio LaSalle Art College di Singapore, il gioiello dell’architettura post-moderna, di quel tipo di architettura di cui i critici dicono che produce un effetto vicino alla decostruzione e che indirizza la nostra mente verso una sorte di labirinto. Infine, in mezzo a tutto questo c’è qualcosa che si distingue dal resto. In tutto il manifesto solo qualcosa è stato evidenziato in grassetto. E' la frase: Non è più quel che era. Comincerò, dunque, da qui.

Non è più quel che era, che cosa era? Mi fermerò un istante su questa frase. Se diciamo che non è più quel che era, stiamo dicendo che è un’altra cosa, in un certo modo obblighiamo, noi stessi, a pensare: che cosa è ora ciò che è stato prima? Cosa è diventato? Se ci lasciamo trasportare da questo interrogativo, potremmo facilmente far declinare la questione pensando che ci sia un'altra modalità dell’ordine simbolico. Ma, in quale maniera, possiamo pensare un nuovo ordine simbolico? Non è una questione semplice e neanche banale. Perché se ammettiamo che l’ordine simbolico, come l’abbiamo conosciuto prima, non esista più oppure, più precisamente, che sia in via di estinzione, in un certo modo siamo obbligati a pensare che la cura analitica come l’abbiamo conosciuta si estinguerà in un tempo non molto lontano, ciò comporta a breve la sua abolizione e l'essere scartata come un oggetto tra altri. E’ questo il pericolo? Oppure potremmo dire piuttosto che questo sia un fantasma: l’estinzione della psicoanalisi.

In realtà la questione dell’estinzione della Psicoanalisi percorre tutta la storia del movimento analitico; Freud stesso, fin dai suoi inizi, paventava tale minaccia. Infatti, la civiltà incarnata in ciò che c’è d’irriducibile nella pulsione di morte, spinge in senso contrario alla legge del desiderio. Occorre dire, però, che spinge fino ad un certo punto. La conferenza di Jacques Allan Miller a Comandatuba[1], per esempio, tramite Una fantasia rovescia la questione e ci riporta piuttosto a pensare che la struttura del legame sociale nella contemporaneità sia analoga alla struttura del discorso analitico isolato da Lacan. Sinceramente non credo che la Psicoanalisi sia in via di estinzione, piuttosto penso che dobbiamo avere cura e riguardo della sua sorte. Al termine della conferenza potremo discutere di tutto questo.

In breve la questione è, fino a che punto il sintomo sarà trattabile attraverso la parola, utilizzando i termini che ancora continuiamo ad adoperare, inclusi quelli dell’ultimo insegnamento di Lacan?

Stefan Zweig con Joyce
Per prima cosa riprenderò due riferimenti letterari a partire dai quali mi sono orientato nella scrittura di questa piccola riflessione sul tema del Congresso. Costituiscono un contrappunto, due soluzioni diverse tra loro, per pensare il titolo "non è più quel che era", due scrittori che hanno trovato la loro modalità particolare di risposta alla rottura dell’ordine simbolico che orientò la civiltà fino agli inizi del secolo XX. Probabilmente, i primi 20 anni del secolo scorso sono stati un punto d’inflessione determinante, segnati soprattutto dalla Grande Guerra, inedita sia per la crudeltà sia per la sofisticazione dei mezzi di distruzione. Quegli anni sono stati anche quelli in cui, l’introduzione già definitiva della Psicoanalisi nella cultura, aveva prodotto un tremendo turbamento dell’ordine simbolico. Uno di questi riferimenti è Stefan Zweig, l’altro è James Joyce. Il libro di SZ, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo,[2] oltre al suo valore letterario, certamente innegabile, lo considero avere per noi un valore particolare che va oltre. In aggiunta non possiamo dire che questo libro sia identificabile con il genere dell’autobiografia. E’ una narrazione che s’inscrive piuttosto nell’ordine della testimonianza; c’è una differenza tra testimonianza e autobiografia. Inoltre sappiamo - anche se SZ non è mai stato un analizzante nel senso stretto del termine - della sua profonda affinità con il movimento psicoanalitico e anche del suo rapporto, quasi famigliare, con Freud, sia a Vienna sia durante l’esilio di entrambi a Londra, dove, durante l’ultimo anno di vita di Freud, hanno mantenuto un contatto quasi quotidiano. In quell’anno, per esempio, SZ portò Salvador Dalì a casa di Freud. Fu in quell'occasione che Dalì dipinse il famoso ritratto di Freud; dipinto che Freud stesso non ha mai visto perchè SZ glielo sottrasse nel preciso momento in cui Dalì finiva di dipingerlo. SZ non voleva che Freud lo vedesse perché pensava che Dalì, come un chiaroveggente, avesse incluso nel quadro anche la morte imminente. Probabilmente SZ vedeva in sé quell'ombra minacciante e la sottrazione del quadro può essere intesa anche come la profonda amarezza di un uomo al quale era crollata ogni speranza nel mondo che aveva conosciuto.

SZ testimonia - con un impressionante rigore, incarnato in una soggettività che diventerà universale - cosa è la rottura definitiva dei luoghi dove s’inscrivevano - per lui e per i suoi contemporanei - i significanti Padroni che orientavano la civiltà prima della rottura di un ordine che aveva mantenuto la sua consistenza e il suo sviluppo nella stabilità di un mondo organizzato dalla credenza. Ciò era stato reso possibile per la consistenza di grandi narrazioni che avevano intessuto il legame sociale in una maniera tale che si pensava sarebbe stato per sempre. Vi leggerò un piccolo brano del libro che illustra ciò con la precisione dello scrittore e con quella del testimone che incarna il crollo di ogni sembiante. Si trova a pagina 240:[3]

"Come stupirsi se un’intera generazione di giovani guardava con amarezza e con disprezzo i propri padri, che prima si erano lasciati strappare la vittoria e poi la pace? Che tutto avevano fatto male, nulla avevano preveduto e giustamente calcolato? Non era ben comprensibile che sparisse nella nuova generazione ogni forma di rispetto? Una gioventù totalmente mutata non credeva più nei genitori, nei maestri nei politicanti: ogni proclama ed ogni disposizione dello Stato erano accolti con diffidenza. La generazione del dopoguerra si liberò brutalmente, di colpo, da tutto quanto era stato sino ad allora valido; voltò le spalle ad ogni tradizione, risoluta a prendere in mano il proprio destino, staccandosi dal vecchio passato con nuovo slancio verso l’avvenire. Con lei avrebbe dovuto iniziarsi in ogni campo della vita un mondo del tutto nuovo, un ordine del tutto diverso, e naturalmente tutto cominciò con le più pazze esagerazioni. Chi non era un coetaneo, era subito un vecchio finito. I ragazzi di undici o dodici anni, in gruppi ben organizzati e sessualmente ben istruiti di "uccelli migratori", invece di viaggiare coi genitori, giravano il mondo soli, fino in Italia e al Mare del Nord. Nelle scuole vennero istituiti, su modello russo, dei "consigli" fra scolari per sorvegliare i maestri e rivoluzionare i programmi, giacché quei ragazzi volevano imparare solo quel che accomodava loro. Ci si ribellò, per il puro piacere della rivolta, contro ogni forma ancor valida, persino contro la volontà della natura, contro l’eterna polarità dei sessi. Le fanciulle si fecero tagliar i capelli cortissimi, tanto che non si poteva riconoscere le loro testoline "alla Bubi" da quelle dei maschi; i giovani d’altra parte abolirono i baffi per sembrare più femminei; omosessualità ed amori lesbici divennero di gran moda, non per impulso interiore, ma come protesta contro le forme tradizionali, legali e normali dell’amore. Ogni manifestazione di vita si sforzava di assumere atteggiamenti radicali e rivoluzionari, e così naturalmente fecce anche l’arte. La nuova pittura dichiarò superato tutto quanto avevano creato Rembrandt, Holbein e Velazquez, abbandonandosi ai più smodati esperimenti del cubismo e del surrealismo. Dovunque si combatté contro l’elemento razionale: la melodia in musica, la somiglianza nel ritratto, la comprensibilità nella lingua. Gli articoli "il, lo, la" vennero aboliti, la sintassi fu capovolta, si scriveva in stile telegrafico, con gran sfoggio di focose interiezioni,…". (Certo, quest’ultimo è un’anticipazione privilegiata di ciò che sarebbero state le nuove forme di comunicazione contemporanea, con la frammentazione che si produce nella lingua dovuta all’atomizzazione della lettera).

Ebbene. SZ, mentre costruisce nel suo libro la narrazione del crollo, rende anche conto di quanto è stato per lui insopportabile quest’attraversamento, questa caduta radicale degli ideali forgiati durante i secoli. SZ soccombette a quella situazione. Come sappiamo, il suo destino s’iscrive nella disperazione in cui lo sprofondò la perdita radicale del senso, la fuga inarrestabile che lo trascinò quando gli si presentificò la caduta del padre. La soluzione che trovò fu quell’atto riuscito che è il suicidio, fu la condotta che lo spinse a tacitare la vociferazione di un mondo che non lo rappresentava più. Un’uscita, se vogliamo fare una congettura clinica, dal lato dell’identificazione melanconica con la caduta del padre. Non c’era modo, per lui, di inventare una nuova narrazione.

Troviamo un’altra versione del tema, come un contrappunto, in Joyce, un contemporaneo di SZ. La produzione di Joyce ci orienta in un'altra direzione. L’opera di Joyce cambia progressivamente - riferisco solo un aspetto della questione, per mancanza di tempo - dai primi racconti, dall’epoca di Ritratto dell’artista da giovane , fino al momento d’inflessione, di una prima scansione relativa la scrittura con la pubblicazione di Ulisse. Inoltre, leggendo le sue opere, possiamo notare che, mentre sta costruendo la sua letteratura, a poco a poco, ci troviamo confrontati con un modo di scomposizione del discorso, dove la narrazione stessa, la sua logica – ossia ciò che possiamo intendere come un ordine - comincia a perdere consistenza. SZ è rimasto fedele, fino all’ultimo momento, alle coordinate della narrazione, al senso della storia, che viene perso solo nel reale della morte. Al contrario Joyce fa un passo in più e si ferma un istante prima, al di qua della morte. Stop, ci dice, e fa scoppiare l’ordine simbolico, lo disintegra. La lettera - il "supporto materiale del discorso", come ci ha insegnato Lacan - entra in una dimensione nella quale diventa illeggibile però non senza stabilire un legame all’Altro, permette che il fuori senso possa essere letto. Joyce produce, alla fine, con Finnegans Wake - il suo grande e definitivo work in progress - la rottura radicale con ogni ordine. Certamente, c’è qualcosa di visionario in tutto questo, anticipa la scomposizione dell’ordine simbolico, probabilmente seguendo la stessa direzione dell’arte contemporanea, nella quale è in gioco l’abolizione del senso, del senso stesso della narrazione. E’ la decadenza definitiva delle forme narrative. Il senso è effimero, ha una caducità quasi istantanea. Il senso non si mantiene più. Non dobbiamo dimenticare la favolosa ironia che si può cogliere in Finnegans Wake, che in fondo è un libro sulle vicissitudini di una famiglia con il significante padrone del vecchio ordine simbolico; la famiglia Earwicker, con il padre HCE e la madre ALP, è una bella metafora per pensare le forme odierne di ciò che ancora chiamiamo famiglia. Tutti sappiamo che è una specie di pazzia riuscire a orientarsi in questo libro, il quale, in ultima istanza, ha la pretesa di essere considerato come un romanzo comico. Credo, infatti, che qui si possa distinguere ciò che è comico da ciò che è ironico. Lo dico perché tendo a pensare che con Joyce si possa imparare, tra le altre cose, il buon uso dell’ironia. Ossia, la possibilità di accettare l’inconsistenza del mondo senza cadere nel cinismo. Neanche nel suicidio. Senza dubbio, è meglio continuare a vivere. Dobbiamo seguitare a vivere e, nello stesso tempo, mantenere una posizione etica. Non ci uccideremo, né ci convertiremo alla dittatura dell’oggetto postmoderno. Il discorso analitico del secolo XXI procede su questa sottile linea.

Questa è stata la prima articolazione che volevo trasmettere per pensare ciò che non è più quel che era. Due modi di rispondere alla rottura dell’ordine simbolico. SZ e Joyce hanno finito i loro libri quasi all’unisono, negli stessi anni; entrambe le opere sono state pubblicate a distanza di poco tempo. Joyce termina FW nel 1939 e SZ finisce il suo libro nel 1941. FW è stato pubblicato nello stesso anno, 1939, e la pubblicazione postuma di Il mondo di ieri è del 1944.

Conseguenze
Andiamo avanti. Contemporaneo di questi due autori è Freud, ed è ciò che ci interessa di più. Come dice Lacan, Freud è "un uomo di un altro tempo". Certamente, in Freud c’è quest’appartenenza a un altro tempo. Ciò può sembrare molto evidente solo se si fa una lettura ingenua della sua presenza nel secolo XX. Per esempio, in Europa, non nell’"Europa erudita" (in cui alcuni intellettuali isolati mantengono ancora tracce di altre epoche) ma nell’"Europa clinica" talvolta si rischia di leggere "alla lettera" l'affermazione "Freud era un uomo di un’altra epoca" e di ricavarne solo il tratto banale, dandole il senso di ciò che fu, di ciò che è stato superato. Questo è un pensiero debole, il quale però ha una densità pericolosa poiché è attraversato dall’allucinazione di ciò che è veloce e nuovo. E’ una delle modalità del dispregio del sapere, in questo caso, del sapere clinico.

Infatti, se posso permettermi di dirlo in questa maniera, Freud tocca il cardine, il cuore stesso dell’ordine simbolico quando mostra "a cielo aperto" i meccanismi che sono in gioco nell’organizzazione delle nevrosi: il pathos del padre e, nello stesso tempo in cui lo mostra, lo destabilizza definitivamente. Lì, nel luogo in cui si pensava che si fosse fissata l’organizzazione della cultura e dove sembrava che si fosse condensata la significazione del legame sociale, d’un tratto irrompe la sessualità come condizione necessaria della non coincidenza con l’ordine simbolico. Freud fin dall'inizio mette in evidenza che la cosa non funziona, però lascia intendere che, in qualche maniera, si potrebbe far funzionare. Lì, in realtà, finisce l’ottimismo riguardo all’ordine simbolico. Anche se si cerca, con ogni mezzo, di trovare delle formule per ristabilirlo, fallisce. Il soggetto resiste in varie maniere, diventa refrattario all’efficacia della messa in atto dell’ordine simbolico nella cura. Lo strumento fondamentale dell’atto analitico freudiano, l’interpretazione, supportata precisamente dalla costellazione simbolica, in ultima istanza, perde la sua efficacia. Ci sono diversi fenomeni clinici che testimoniano questo. Certamente, il loro paradigma riguarda la concettualizzazione della pulsione di morte - mai accettata pienamente dagli analisti post-freudiani, oggi attirati dalla "speranza" offerta dalla biologia e dalle neuro-scienze - e di quei fenomeni clinici che s’iscrivono attorno alla reazione terapeutica negativa. Questi sono una prova irrefutabile di "Ciò" (omofonia di Cà) che resiste. D’altra parte, anche l’enigma della femminilità lascia Freud, l’uomo di un’altra epoca, per così dire, senza risorse simboliche. Sebbene il simbolico sia già bucato su vari fronti, tuttavia la sua inerzia è ancora decisiva. E, certamente ancora possiamo, fino ad un certo punto, verificare la sua efficacia clinica. Nonostante, credo, siamo alla fine del duello.

Freud - l’uomo di un'altra epoca, forse suo malgrado, come dice Lacan - molto presto, aveva già afferrato la portata della fragilità delle risorse del logos per addomesticare il reale. Sia nel 1916 con Una difficoltà in psicoanalisi[4] così come nel 1924 con Le resistenze alla psiconalisi[5] riprende il tema relativo alle conseguenze, nel destino della civiltà, della convinzione che l’umanità possa proteggersi e sostenersi sulle risorse di una legge universale in grado di regolare il godimento. Forse quando Freud enumera le tre grandi ferite inflitte al narcisismo dell'uomo - Darwin, Copernico e l’inconscio stesso – non dovremmo intenderle come "dei colpi riusciti" che annunciano lo sconquasso di un ordine simbolico che, in ciascun’epoca, si considerava sufficiente per dare senso alla presenza dell'essere parlante; il quale essere, costituito dalla sua debolezza strutturale, non ha trovato altro modo che ricorrere a una narrazione che pretende di elevarlo a un "centro" impossibile da definire. Ma, come la sfera nella metafora di Borges, il centro non è localizzato in nessun luogo, la sua circonferenza è da per tutto, a secondo di come il punto si muove. Potrei parlare di Borges, alcuni di voi sanno della mia passione per lui. Insieme a JAM, 11 anni fa, abbiamo inventato Uqbar in suo onore. Un Borges lacaniano. Ma ora non abbiamo tempo.

Infine, cosa è l’ordine simbolico così come scaturisce da Freud? E’ forse l’Edipo con la sua potenza strutturante senza la quale, in tanti, pensano che la Psicoanalisi non avrebbe nessuna consistenza epistemica? E’ forse vero che il suo edificio cadrebbe come un castello di carte se mamma e papà non avessero riprodotto il piccolo dramma, narrato di volta in volta dal soggetto? Indubitabilmente, Freud è molto più di questo, anche se, risulta necessario Lacan, per considerare Freud in tutta la sua portata. Appunto, come sappiamo, Lacan mette "in ordine" Freud e cerca di isolare, con la maggiore purezza possibile, ciò che chiamiamo il simbolico. Possiamo pensare questo in una maniera molto semplice, per esempio: come funziona il pensiero? Lacan, in un momento avanzato del suo insegnamento, aveva omologato l’ordine simbolico al pensiero. Poi, verso la fine del suo insegnamento, in pratica desiste dall'idea di isolare un ordine simbolico puro. Produce piuttosto una riduzione dell’inconscio e dell’ordine simbolico a beneficio di un reale che si annoda al corpo. Il concetto di debolezza mentale è solidale con questa concezione. Il simbolico è la debolezza per eccellenza. Il soggetto patisce del simbolico come se il simbolico stesso fosse la prova della sua assoluta disarmonia con l’ordine naturale. Se Lacan è giunto a dire che il pensiero era una malattia, si potrebbe dire che il parassita, l’ordine simbolico, è la malattia dell’inconscio.

Il pensiero, ciò che Lacan identificava con l’ordine simbolico stesso, funziona principalmente a livello della differenza, costituisce una logica binaria fondata su 0 – 1, nella combinatoria cibernetica: differenza dei sessi, uomo – donna; differenza tra le funzioni, padre – madre; differenza tra la vita e la morte. Storicamente, se possiamo dire così, questo è il modo in cui si è organizzato il pensiero e si sono ripartite le funzioni. E’ a partire dall’Altro in quanto ex-sistente che possiamo trovare un ordine nel quale le differenze sono consolidate. Un ordine di gerarchie ben stabilite e installate. Il simbolico domina sull’immagine, il significante domina sul significato. L’interpretazione analitica si è inscritta, all’inizio, anche in questa logica. Certamente, questa era una maniera comoda d’intendere le cose.

Però, possiamo vedere come, progressivamente, quest’ordine, sul quale ci sostenevamo, ha comincia a scombinarsi. Il progredire della civiltà stessa fa sì che si scombini. E Lacan sa leggere questo "scompiglio" nella buona maniera. Ciò che Lacan verifica, ogni volta con maggiore precisione, è come, a poco a poco, si produce una cancellatura delle differenze che si sostengono nell’ordine simbolico. Al posto del sistema binario c’è lo sciame dei significanti. L’Altro perde consistenza, a beneficio dell’Uno. L’uno immaginario, l’Uno simbolico. In questa congiuntura non c’è effetto di significazione: non è possibile o, almeno, non è più così semplice identificare la gerarchia e la dialettica. Per illustrare questo in una qualche maniera, possiamo dire che la metonimia predomina sulla metafora. La significazione vacilla radicalmente: qui ci troviamo già con un problema.

Pensiamo quindi un po’ alle conseguenze che in prima istanza possiamo estrarre da questo mutamento dell’ordine simbolico. E, pensiamo, in quale misura questo ha effetti sui destini della cura analitica.

Bisogna anche considerare - e questo è fondamentale per capire il mondo di oggi – che assistiamo, come mai era successo prima, all’ingerenza ormai definitiva della scienza nella soggettività. Anche questo fatto ci pone di fronte ad un orizzonte dove la cancellatura delle differenze diventa ogni volta più evidente, insieme con una spinta brutale all’omogeneizzazione e alla tendenza, almeno in Europa, ogni volta più decisa nel trovare soluzioni nell'efficacia dell’oggetto tecnico, validato dal criterio di ciò che è scientificamente dimostrabile.

Penso che siamo tutti d’accordo riguardo al fatto che attraversiamo l’epoca della caduta delle grandi narrazioni e dello scoppio dei sembianti su cui poggiava la fiducia nell’organizzazione del mondo. Per constatarlo, basta dare un’occhiata all’attualità più immediata, allo scatenamento della crisi finanziaria. Un esempio analitico è verificare fino a che punto risulti impossibile ristabilire il soggetto-supposto-sapere (SsS). Ristabilire la fiducia su un qualche significante padrone. Ogni tentativo di regolazione è refrattario alla logica stessa del discorso. A questo livello, possiamo vedere che è aumentata la complessità di un ordine simbolico in cui lo spostamento degli oggetti è vertiginoso, così che ci troviamo di fronte l’enorme difficoltà di fissare le significazioni, perché le significazioni perdurino nel tempo. E questo, certamente, ci concerne. E’ difficile trovarsi con cose che si mantengano, che perdurino nel tempo.

La caduta delle grandi narrazioni, certamente, non è senza conseguenze sulla caduta della narrazione al singolare. Il soggetto stesso è impoverito dall’invasione dell’oggetto. E se vogliamo orientarci nella clinica, ci troviamo, ogni volta e con maggiore frequenza, davanti a un grande ostacolo. La cura stessa, attraversata da questo nuovo ordine simbolico, dimostra che - sebbene il Nome del Padre non abbia perso del tutto la sua operatività clinica – diventa ogni volta più complesso che il soggetto trovi la buona maniera di servirsene tantomeno di orientarsi da lui medesimo. Mi riferisco alla difficoltà che incontra nel trovare il modo, più o meno ragionevole, attraverso il quale servirsene. Inoltre, la pluralizzazione dei nomi del padre - questa grande alternativa clinica- non è facilmente operativa, ossia, non è sicuro che si sostenga nel tempo. La clinica contemporanea - detto in senso generale - ci mostra le enormi difficoltà che hanno i soggetti nel riuscire a costruire una narrazione, un racconto che renda possibile giungere a un certo grado di formalizzazione simbolica. Piuttosto diventa più frequente una clinica del passaggio all’atto, una clinica che è in rapporto diretto col godimento e con l’imperativo, nella quale l’invito all’elaborazione è abitualmente rifiutato; ciò che orienta il campo della domanda è piuttosto l’imperativo del soddisfacimento immediato. Sotto questa prospettiva l’interpretazione e il ricorso al simbolico - che ci orientava, a partire da Freud – cominciano a dimostrare che non sono efficaci. Già tempo fa, in misura maggiore, abbiamo percepito questi effetti in forma più nitida, attraverso quell’enorme formalizzazione clinica che è stata prodotta nel Campo Freudiano a partire dalla Conversation d’Arcachon[6] e Le Conciliabule d’Angers[7], fino alla Conversation de Antibes[8] . Grazie alle quali ci siamo resi conto che ogni volta ci incontriamo con un numero maggiore di soggetti disabbonati all’inconscio, con soggetti impoveriti nella funzione simbolica e con l’irreparabile svalutazione del sapere che questo comporta. Il soggetto contemporaneo abitualmente si presenta – bisognerebbe considerare qualche sfumatura rispetto a ciò che succede in Europa e in Argentina, non credo che le cose siano estrapolabili in modo diretto, tuttavia indicano una tendenza - non in cerca di un sapere ma piuttosto con la domanda di una manuale d’istruzioni; in genere, non manifesta nessun interesse per la causa. Questo è in rapporto con il tema a cui stiamo pensando da tempo: un ordine costituito dall’elevazione allo zenit dell’oggetto a, modella le soggettività, nelle quali l’amore e la castrazione sono esclusi ogni volta di più.

L’oggetto perso, quella bussola che ci orientava, diventa una chimera nell’epoca in cui ogni tipo di perdita è vissuta come una ingiustizia. Questa è piuttosto l’epoca in cui l’oggetto è sempre presente, per questo motivo ciò che chiamiamo angoscia generalizzata non è altro che la presenza massiva dell’oggetto nel mondo. Ciò introduce una modifica nei processi di lutto e nella percezione soggettiva dei buchi nel simbolico. E non mi riferisco solo ai grandi lutti ma anche alla dystichya della vita quotidiana, a quanto sia pesante per il soggetto conviverci ogni giorno. Il tempo dell’elaborazione è ridotto al minimo indispensabile di un tempo nel quale impera la sostituzione fulminante; il tempo di comprendere viene abolito a beneficio di un autismo soggettivo che si materializza in un campo così ampio che va dall’intossicazione chimica alle molte diverse pratiche, sociali e non, che hanno in comune la restrizione della parola, non perché i soggetti non parlino ma nel senso del restringimento, della riduzione del discorso a cui sottomettersi. In senso stretto, parlare è perdere, comporta cedere qualcosa all’Altro, ma questa modalità del dire scompare ogni volta di più.

Questo mi rammenta quei passaggi del Seminario XI, dove Lacan diceva, rispetto della clinica: non importa sapere perché sua figlia è muta, l’importante è farla parlare. Infatti, per la Psicoanalisi non basta sapere perché è muta, così come non è sufficiente farla parlare, giacché ciò di cui si tratta è di trovare la formula per mettere in moto qualcosa del reale a partire da un sapere e, per fare questo, non basta parlare. Se non avviene questo, non potremmo stabilire nessuna differenza con il regime delle psicoterapie, qualsiasi esse siano, che mettono in moto solo l’apparato del linguaggio. Credo che la difficoltà si situi qui. Come ri-pensare la manovra analitica per mettere in moto il sapere, affinché riesca a toccare il godimento messo in gioco nell’epoca in cui -come sappiamo- l’inerzia del discorso formalizza un legame sociale, nel quale l’oggetto *(al contrario di ciò che comporta la sua struttura: essere perso per sempre) è concepito come la speranza stessa di un soddisfacimento? Per il soggetto postmoderno non è semplice sopportare il rigore analitico, acconsentire finalmente di trovare la formula per fare il lutto dell’oggetto, mentre tutto l’apparato del discorso lo spinge - come dice Lacan a proposito dello psicotico - a portarlo in tasca. Questa è la congiuntura della nostra scommessa e qui sta anche la nostra difficoltà. In quale modo dobbiamo saper utilizzare le parole perché, vecchie o nuove che siano, servano a rettificare la posizione del soggetto di fronte al reale?

Come fare avvenire ciò sia che i soggetti siano sottomessi al Nome del Padre sia che siano obbligati a sostenere, attraverso i mezzi a disposizione, un sistema di rappresentazioni garantito da qualcosa, in un mondo dove un qualsiasi sembiante che possa incarnare qualsiasi tipo di autorità, vacilla in modo quasi definitivo? Questo, certamente, comporta pensare alle nostre proprie modalità di garanzia.

Per questo, probabilmente, il dispositivo della passe diventa imprescindibile non solo perché la specificità della Psicoanalisi non si sciolga nella Babele ma anche per orientare una clinica possibile del legame sociale che non ricada nel cinismo contemporaneo, che possa dare una spinta alla produzione di buone forme di presa di distanza dall’imperativo contemporaneo. Ciò può essere realizzato, giustamente, trovando le formule che promuovono la parola nel suo senso più autentico.

Tutto questo però pone, in un certo modo, un grande paradosso, poiché, da una parte, la nostra possibilità di efficacia clinica sul godimento comporta che una narrazione sia costruita, che si possa stabilire una finzione per operare, sulla sua struttura di finzione, se così possiamo dire. D’altra parte, però, succede che il soggetto della domanda, sempre di più, è meno condizionato dall’amore che mobilita la domanda stessa. Ciò comporta un ostacolo nell'operare sul desiderio: non può essere colto a partire dalla domanda.

Ogni domanda è una domanda di amore, conosciamo la massima di Lacan. Possiamo ancora fare quest’affermazione? Certamente, sì, nonostante, notiamo come il campo della domanda sia attraversato da qualcosa di differente, da un tipo di domanda più opaca che può condensarsi nella volontà del soggetto che si ostina a essere il depredatore di se stesso. E’ ciò che spesso ascoltiamo: nel discorso non si manifesta nessun desiderio di cambiamento, si tratta piuttosto dell’enunciato rigido di una domanda relativa a come fare per godere di più oppure - ma in ultima analisi è la stessa domanda- come recuperare nel modo più rapido il godimento perso. Questa è una formula che si costruisce nel discorso, solidale con l’aporia postmoderna che pretende di far scomparire il sintomo, il quale è letto, attraverso tutto l’apparato del discorso stesso, come un disturbo.

E’ molto evidente che, in questo nuovo ordine simbolico, la caduta degli ideali muta a beneficio, come diceva Lacan, della legge di ferro del superio. E questo ha delle conseguenze nell’amore.

Questo cambiamento comporta anche un altro paradosso: Nella misura in cui la cura è una riduzione dell’ideale, anche l’amore - in quanto resta identificato all’ideale – deve cadere. Però, nello stesso tempo, bisogna reintegrarlo nell’economia psichica secondo una modalità che non sia quella dell’ideale. Se noi scommettiamo nel far sorgere le modalità di un nuovo amore al di là dell’Altro, al di là degli ideali, dovremo inventare una presenza di questo nuovo amore, il quale, secondo Lacan non si confonde con l’ideale. Affinché l’amore, appunto, non cessi di essere il ponte più adatto che permette di far condiscendere il godimento al desiderio.

Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che viviamo nell’epoca della pornografia generalizzata. Non solo nella versione della copula immaginaria dei corpi filmati, ma in quella delle immagini che amplificano fino alla saturazione, la possibilità di far esistere il rapporto sessuale. Questo fenomeno non nuovo, è caratterizzato dalla potenza della pregnanza immaginaria. La pornografia generalizzata è anche un tratto di perversione nel quale s’inscrivono le forme di un esibizionismo universale che spinge alla forclusione dell’amore e che tende a condensare la significazione del cinismo, sottomesso all’imperativo del "tutto è possibile". In uno scenario così definito non c'è nessuna frontiera che limita il godimento.

La scommessa della Scuola e del suo dispositivo, da questo punto di vista, si materializza nel fare lo sforzo di isolare, con la maggiore precisione clinica possibile, la particolarità di un nuovo amore per trasmettere all’insieme - non solo degli analisti ma a un campo più ampio, la maniera, la forma, in cui l’avvento di un nuovo amore possa funzionare come un velo sufficiente per ricollocare il desiderio come sua bussola. Le formule singolari della produzione di questo nuovo amore possono orientare l’atto analitico per pensare la clinica nel XXI secolo che è appena iniziato -bisogna dirlo- in uno stato di una completa agitazione.

Senza dubbio, c’è un nuovo ordine simbolico, la cui consistenza si è molto manifestata. E’ la prevalenza di ciò che solo si può scrivere come ciò che Lacan denominava la verità formalizzata. Infatti, questo non è un ordine sostenuto né dagli ideali né dai sembianti del Nome del Padre, ma si appoggia sugli oggetti reali, ormeggiati nel discorso, dal peso dell’oggetto a.

In realtà, credo che la logica stessa del discorso analitico, non ci permette di adottare nessuna posizione che se inscriva nella via della nostalgia di ciò che è stato. Non ci viene permesso, per dirlo più enfaticamente, ritornare sulla traccia di un soddisfacimento perso. Non ci servono a niente né la nostalgia né la rivendicazione - forse quest'ultima ancora più pericolosa – che ci potrebbe portare verso il discorso religioso, quello che falsamente si strappa le vesti, invocando l’idea di spingere verso una forzatura inutile nel tentativo di innescare il Nome del Padre, proprio lì, dove la sua efficacia è ormai inutile. Questa forzatura fa oscillare il discorso verso le modalità di quell’identificazione al tratto osceno dell’Altro, che solitamente porta al fondamentalismo.

Senza dubbi, ci resta il sintomo, ossia, ciò che Lacan pensava essere irriducibile. Se ci sono sintomi, ci saranno degli analisti disposti ad accoglierli. Fino a che punto, però, il sintomo continuerà a essere docile al discorso analitico? Fino a che punto potremmo sostenere che ancora siamo nella parte fondamentale dei destinatari dei sintomi? Questa è una questione che riguarda proprio la nostra esistenza e che non possiamo cessare di interrogare, non è conveniente smettere di interrogare il proprio sintomo. Infine, il sintomo della Psicoanalisi stessa, incarnato nella cultura, è probabilmente una delle forme di garanzia della nostra esistenza nel mondo che abitiamo, il quale ogni volta diventa sempre più sconosciuto se viene preso in considerazione con le stesse coordinate attraverso cui abbiamo affrontato la cura durante il precedente secolo XX.

Certamente, ci sono molte altre cose da trattare ma mi fermo qui. Bisogna lasciarci il tempo per conversare. Molte grazie.

Buenos Aires, aprile 2011.

 


Traduzione: Silvia G. Cimarelli, Alide Tassinari.

NOTE

  1. Una Fantasía. Conferenza di Jacques-Alain Miller tenuta nel IV Congresso dell’AMP a Comandatuba, in Brasile, luglio 2004. Pubblicato in La psicoanalisi n. 38 /2005, Casa Editrice Astrolabio, Roma. Inoltre si può trovare una versione in cinque lingue in: http://www.congresoamp.com/es/template.php
  2. S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo; trad. italiana di Lavinia Mazzucchetti; Oscar Mondadori, Milano 1946; ristampa 2011.
  3. S. Zweig, op. cit., p. 240.
  4. Freud, S, Una difficoltà in psicoanalisi, Opere, Vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1980
  5. Freud, S., Le resistenze alla psicoanalisi Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1980
  6. Irma, La conversation d'Arcachon, Cas rares: les inclassibicables de la clinique. Trad. it. La conversazione di Arcachon. Casi rari: gli inclassificabili della clinica, Roma Astrolabio 1999
  7. Irma, Le conciliabule d'Angesrs. Effets de surprise dans les psycoses, trad. it. Il conciliabolo di Angers. Effetti di sorpresa nelle psicosi, Roma Astrolabio 1999
  8. Miller, J-A (a cura di) La Psycose ordinarie, La conversation di Antibes, trad. it. La psicosi ordinaria. La conversazione di Antibes, Roma, Astrolabio , 2000